Che cosa ci insegna la catastrofe etica della medicina nazista
Il periodo nazista è l’esempio più estremo e documentato di complicità medica in comportamenti criminali. Si può imparare da questa fetta di storia solo se si abbandona il presupposto che i medici che collaborarono con il regime nazista fossero mostri: erano persone con caratteristiche psicologiche condivise con il resto dell’umanità e con convinzioni scientifiche e obiettivi di carriera largamente diffusi, che agivano in un sistema politico estremo.
Un prigioniero di Dachau viene sottoposto a condizioni di pressione paragonabili a quelle che si trovano a 15.000 metri di altitudine nel tentativo di determinare se i piloti tedeschi potessero sopravvivere a quell’altezza, Dachau 1942. Photo ID: 238.5.3-Brandt Case, Pros. Ex. 610. Crediti: United States Holocaust Memorial Museum, courtesy of National Archives and Records Administration, College Park.
La rivista The Lancet ha da poco compiuto 200 anni: la fondò, nel 1823, il farmacista e chirurgo ventisettenne Thomas Wakley, con l’intento di estendere la conoscenza professionale dalla piccola cerchia di clinici che ne deteneva il monopolio a tutti i medici britannici della città, della campagna e delle colonie e di operare come un bisturi (lancet) per estirpare dalla medicina le credenze e le pratiche inefficaci e dalla sanità inglese la corruzione.
Due secoli di tempestiva narrazione di ogni progresso medico e chirurgico (dalla prima trasfusione del sangue alla scoperta dei vaccini contro il coronavirus) vengono ridotti, in puro stile britannico, a “un buon inizio”, dall’editoriale dell’anniversario, che rimarca, invece, che “c’è ancora tanto da fare”. In ammenda del passato colonialista della rivista, ma non solo, Richard Horton (che la dirige dal 1995 e ha lavorato anche per l’ONU e in Physicians for Human Rights) intende fare di The Lancet l’alfiere della missione politica, oltre che scientifica, della medicina: “We are a mission-driven family. Much more than a collection of excellent journals: we have a unique commitment among medical journals to improving health, achieving health equity and advancing social justice“.
Con questo intendimento, a partire dal 2009, The Lancet ha creato 63 Commissioni (presentate su https://www.thelancet.com/lancet/commissions), nelle quali partner di alto profilo accademico hanno approfondito, di volta in volta, temi globalmente sensibili e rilevanti nel campo della salute, con l’obiettivo di fornire raccomandazioni per cambiare la politica o la pratica sanitarie.
La penultima (novembre 2023) è la Lancet Commission on medicine, Nazism, and the Holocaust: historical evidence, implications for today, teaching for tomorrow, costituita da un gruppo internazionale di venti esperti in vari campi, coordinati da Herwig Czech, docente di etica, collezioni e storia della medicina all’Università di Vienna, da Sabine Hildebrandt, pediatra al Children’s Hospital e alla Harvard Medical School di Boston e da Shmuel P. Reis, del Centro di educazione medica dell’Università Hadassah di Gerusalemme (Herwig Czech et al.”The Lancet Commission on medicine, Nazism, and the Holocaust: historical evidence, implications for today, teaching for tomorrow”, Lancet 2023; 402: 1867-1940).
La ragion d’essere delle qualifiche dei tre copresidenti emerge nel corso della lettura (consigliabile per esteso) delle oltre 50 pagine del dossier, corredato da ben 878 voci bibliografiche.
Il lavoro della Commissione Lancet è guidato dalla convinzione che introdurre nel curriculum universitario lo studio di questo frammento della Storia, come corso a sé stante (ne tengono uno all’Università Autonoma di Madrid Esteban Gonzalez-López e Rosa Rios-Cortés) oppure con ore integrative nei corsi di bioetica, possa costituire l’antidoto culturale a ogni pregiudizio o stereotipo di tipo razzista, favorendo la riflessione sul primato dei diritti della persona-paziente e la resistenza a future pressioni o tentazioni di natura finanziaria, accademica o politica che li compromettano.
L’etica medica non è universale, stabile e intrinseca alla deontologia professionale; anzi “… è più fragile di quanto si possa credere, perché dipende dallo spirito culturale dell’epoca e dalle circostanze politico-sociali, che sono entrambi soggetti a cambiamenti” (Bruns F, Chelouche T. Lectures on inhumanity: teaching medical ethics in german medical schools under nazism. Annals of Internal Medicine 2017).
Anche se altri luoghi e momenti storici hanno visto collaborazioni scellerate di operatori sanitari e regimi politici, il periodo nazista è l’esempio più estremo e meglio documentato di complicità medica in comportamenti criminali: nei 12 anni in cui il nazionalsocialismo fu al potere, la scienza, la medicina e le istituzioni di salute pubblica furono utilizzate per giustificare e attuare stermini di massa commissionati dallo stato.
Tali atrocità non furono perpetrate da singoli professionisti ideologicamente radicalizzati: com’è ampiamente documentato, non solo gli operatori sanitari aderirono individualmente e volontariamente in gran numero (per il 50-65%, una percentuale molto più alta che in qualsiasi altra professione) al partito nazista e alle organizzazioni a esso affiliate, ma divennero strumenti del regime anche istituzioni accademiche statali, tra le più avanzate dell’epoca.
Le radici del male
Il primo conflitto mondiale aveva lasciato la Germania in una grande crisi economica, accompagnata da un senso di umiliazione nazionale (conseguente ai pesanti risarcimenti e alla perdita di territori tedeschi e di colonie imposti al paese sconfitto) e in una grave crisi sanitaria, che portò molti medici tedeschi ad avversare il governo democratico della Repubblica di Weimar e a simpatizzare per il partito nazionalsocialista, attratti sia dall’agenda eugenetica sia dalla possibilità di ricavare un vantaggio dall’estromissione dalla professione dei medici ebrei, che, nel censimento del giugno 1933, rappresentavano più del 10% dei 51.527 medici presenti in tutta la Germania e quasi il 40% dei 6.715 di Berlino.
Dal 1933, gli ebrei ebbero il divieto di ricoprire incarichi nel pubblico impiego; due anni dopo furono privati della cittadinanza tedesca e della possibilità di laurearsi e, infine, furono loro revocate le abilitazioni già in essere: dal 1938 nessun ebreo ebbe più il diritto di farsi chiamare medico.
Dopo l’Anschluss (l’annessione dell’Austria alla Germania, nel marzo dello stesso anno), le misure antiebraiche portarono al licenziamento di oltre la metà dei membri della facoltà di Medicina dell’Università di Vienna.
Dei medici ebrei censiti in Germania nel 1933, il 25% fu assassinato e circa due terzi lasciarono la Germania e l’Austria prima della guerra (principalmente verso gli Stati Uniti, la Palestina sotto mandato britannico e il Regno Unito), privati di ogni proprietà e sottomessi alla predatoria tassa sull’espatrio (Reichsfluchtsteuer). Molti medici tedeschi approvarono il licenziamento e la persecuzione dei loro colleghi israeliti e di quelli politicamente dissidenti, dei quali occuparono senza remora alcuna il posto; molti contribuirono a preparare la legislazione sulla sterilizzazione forzata delle persone etichettate come geneticamente inferiori ed eseguirono la procedura su 310.000-350.000 di esse. Pochi rifiutarono di collaborare.
Il bandolo dell’intricata matassa che ha legato la medicina al nazismo è l’ossessione razziale: Rudolf Hess definiva il nazionalsocialismo una “biologia applicata” e il ruolo della medicina era quello di purificare e rafforzare l’organismo nazionale tedesco (Volkskörper) per prepararlo alla sua missione storica di costruire un impero millenario. La radicale riorganizzazione del sistema sanitario pubblico mirava, quindi, alla tutela dell’eredità e alla cura della razza (Erb und Rassenpflege) mediante l’eliminazione sia dei tedeschi ritenuti di qualità genetica inferiore sia dei gruppi considerati una minaccia alla purezza di sangue della nazione.
Le Università furono poste sotto il controllo ministeriale del Reich che, nel 1939, rese obbligatorio per gli studenti di medicina il corso di etica medica (il primo al mondo, sic), il cui il libro di testo (Ärztliche Rechts-Standeskunde “Diritto medico e salute”) fu redatto dall’acceso antisemita Rudolf Ramm (processato e fucilato dai sovietici nell’agosto del 1945) sul principio fondante che i singoli esseri umani avevano valore solo in una prospettiva di comunità, poiché lo sviluppo del Volk era prioritario su ogni altra istanza. Cominciarono, così, le sterilizzazioni forzate, il 50-60% delle quali fu giustificato dalla diagnosi, utilmente elastica, di “debolezza mentale congenita”; le decidevano i Tribunali per la salute ereditaria, dove i medici erano sia consulenti sia giudici.
Va, peraltro, ricordato che la teoria dell’igiene della razza ebbe precorritori ed epigoni. Fu lo scienziato britannico Francis Galton, intorno al 1880, a definire “eugenetica” la valutazione della non idoneità all’esistenza a vantaggio dell’evoluzione della specie umana (distorcendo i concetti darwiniani di selezione e sopravvivenza del più adatto). Il Francis Galton Laboratory for the Study of National Eugenics, in seguito fondato come parte dell’Università di Londra, mantenne quel nome fino al 2013.
La soluzione eugenetica per sbarrare la strada a povertà, prostituzione e criminalità venne introdotta nella legislazione delle province canadesi dell’Alberta e della Columbia Britannica, del cantone svizzero di Vaud e della Danimarca e plasmò i criteri di immigrazione negli Stati Uniti tra la fine de XIX e l’inizio del XX secolo. Era sostenuta dal co-inventore del telefono Alexander Graham Bell, dal medico William Osler e dai vincitori del premio Nobel per la medicina Charles Richet, Alexis Carrel e Hermann J Muller. L’American Eugenics Society ha continuato a esistere fino a molto tempo dopo la fine della seconda guerra mondiale con proseguimento degli scambi con eugenetisti tedeschi. La stessa legge nazista sulla sterilizzazione del 1933 ricalcava, in parte, quella adottata per decenni negli Stati Uniti (dove portò alla sterilizzazione forzata di almeno 64.000 persone disabili) per poi divenire, a sua volta, modello per i provvedimenti eugenetici degli stati scandinavi e baltici.
Omicidi di massa
In Germania, il primo programma di omicidio di pazienti (agosto 1939) prese di mira i bambini con disabilità fino ai 3 anni, soppressi con barbiturici a migliaia in reparti speciali. Nel 1941, il limite di età fu innalzato a 16 anni. Seguì il programma di sterminio sistematico dei disabili mentali con il gas, denominato Aktion T4 (dall’indirizzo Berlin Tiergartenstrasse 4 del suo quartier generale segreto) e autorizzato in via extralegale da Hitler, tramite il suo medico personale Karl Brandt, per riservare ogni risorsa medica ed economica allo sforzo bellico. Nessuno psichiatra fu costretto a partecipare al programma; opportunismo e convinzione personale fornirono le motivazioni per cooperare.
Furono trasformate in centri di sterminio un’ex prigione nel Brandeburgo e cinque strutture psichiatriche nel territorio tedesco esteso (Grafeneck, Hartheim, Pirna-Sonnenstein, Hadamar e Bernburg), in ciascuna delle quali lavoravano più di 50 tra medici, infermieri, impiegati, autisti, guardie di sicurezza e “disinfettatori” (che cremavano i corpi). Stando ai registri del programma, più di 70.000 degenti psichiatrici furono uccisi con monossido di carbonio, tra il gennaio 1940 e l’agosto 1941, data in cui Hitler decise di sospendere i trasporti verso i centri di sterminio T4, per non alienarsi il sostegno pubblico durante l’impegnativa guerra contro l’Unione Sovietica. Gli anomali decessi di pazienti psichiatrici in buona salute, infatti, non erano sfuggiti alle famiglie e alle chiese e, a Vienna, il vescovo cattolico von Galen li aveva denunciati in un veemente sermone del 3 agosto 1941.
Le fini premature dei malati psichiatrici ripresero a lasciare provvidenzialmente liberi i letti per pazienti più “meritevoli di cure” nel 1943, quando i bombardamenti delle città tedesche distrussero molti ospedali.
Il primo programma di sterminio di massa sistematico associato al sistema dei lager fu l’Aktion 14f13, il cui nome deriva dai riferimenti del fascicolo in uso all’Ispettorato dei campi di concentramento, per indicare la morte nel campo (14f) e mediante gassazione (13). I registri dei trasporti da Sachsenhausen, Buchenwald e Auschwitz dimostrano che, in un primo tempo, i detenuti dei campi di concentramento ritenuti inabili al lavoro furono soppressi a Pirna-Sonnenstein, Bernburg e Hartheim come parte dell’Aktion 14f13, poiché nel 1941 non tutti i campi avevano ancora camere a gas proprie; già alla fine di luglio di quell’anno, la gassazione di massa di quasi 600 detenuti direttamente nel campo di concentramento di Auschwitz segnò il passaggio alla definitiva dimensione del crimine.
Esistono collegamenti stretti, anche se non lineari, tra i programmi di omicidio di pazienti e quelli di sterminio sistematico degli ebrei europei, come dimostra il trasferimento di 90 membri del personale dall’Aktion T4 nei tre campi di Bełżec, Sobibor e Treblinka, per condurre la cosiddetta Aktion Reinhard, nella quale tra il luglio 1942 e l’ottobre 1943 furono sterminati circa 1,7 milioni di ebrei e 50.000 rom, oltre a un numero ignoto di prigionieri di guerra sovietici (che, nei vari campi tedeschi, morirono in circa 3 milioni).
Chi espiò?
I resoconti delle “eutanasie” erano arrivati agli Stati Uniti già nei primi mesi del 1941 e quelli delle uccisioni sistematiche degli ebrei apparvero sui giornali palestinesi il 23 novembre 1942.
A guerra finita, la complicità con i nazisti delle élite scientifiche e della classe medica, emersa anche grazie alle testimonianze dei sopravvissuti dei campi e dei ghetti, venne giudicata in vari processi. Il primo di quelli per gli omicidi di pazienti fu celebrato nell’ottobre del 1945 a Wiesbaden davanti a un tribunale militare statunitense, ma dal 1946 il perseguimento degli omicidi dell’Aktion T4 fu delegato ai tribunali tedeschi (Francoforte nel 1947 e Tubinga nel 1949), perché i sei centri di sterminio T4 erano localizzati sul territorio germanico o austriaco e le vittime erano, per la maggior parte, cittadini tedeschi non ebrei. Dopo la fondazione della Repubblica federale tedesca nel 1949, le eventuali condanne a morte furono commutate in ergastolo e, complice l’inizio della guerra fredda, le pene detentive furono gradualmente ridotte: l’ultimo dei carnefici condannati fu rilasciato dal carcere nel 1954.
In Austria, le sentenze furono severe nell’immediato dopoguerra, con cinque condanne a morte (due eseguite), ma, dopo il 1948, raramente portarono a condanne; le sentenze già emesse beneficiarono di ondate successive di amnistie. Dopo il 1949, solo la Francia, tra gli alleati occidentali, perseguì i crimini di guerra medici: in un processo del 1952 contro il personale di Natzweiler-Struthof, unico campo di concentramento nazista in territorio francese, un tribunale militare condannò i medici Otto Bickenbach ed Eugen Haagen ai lavori forzati a vita. Tre anni dopo, entrambi furono rilasciati e tornarono in Germania, dove ripresero a praticare la professione.
Il più noto tra i processi ai medici fu istruito a Norimberga il 9 dicembre 1946, in appendice ai dodici dibattimenti tenuti dal Tribunale militare internazionale dal 20 novembre 1945 al primo di ottobre 1946: le testimonianze delle vittime e dei carnefici non avevano lasciato dubbi – scrive Paul Weindling, storico della medicina a Oxford – che l’apparato sanitario fosse stato “una componente dei genocidi nazisti, dato il coinvolgimento medico nelle camere a gas, nella guerra chimica, nella sterilizzazione, nell’eutanasia, negli esperimenti umani e nei piani per sradicare i degenerati razziali”. Il processo specifico vide imputati solo 20 medici e tre amministratori e la sua portata limitata fece a malapena intravvedere l’entità dei delitti perpetrati.
La sterilizzazione forzata fu minimizzata, sia perché all’epoca era legale in altri paesi, compresi molti degli Stati Uniti, sia grazie ai buoni rapporti scientifici internazionali degli eugenetisti tedeschi; alcuni dei più famigerati criminali erano morti o in fuga (Josef Mengele, tra questi); pochi furono i medici condannati e molti continuarono la loro carriera clinica o accademica in entrambe le Germanie, nonostante l’impegno ufficiale alla denazificazione.
D’altronde, così come è raffigurata dall’iconografia classica, con la spada in una mano e la bilancia nell’altra, la Giustizia contempera il peso dei delitti con l’affermazione delle armi, essendo sempre stata e sempre tendendo a essere giustizia dei vincitori. Le ragioni dell’esiguità delle punizioni furono sia “tattiche” (la rimozione delle persone politicamente compromesse contrastava con la necessità di mantenere in funzione il sistema sanitario in un paese al collasso) sia “strategiche”: gli Stati Uniti valutarono utili le conoscenze scientifiche acquisite nella Germania nazista, anche in funzione anti sovietica.
I dati provenienti dagli esperimenti di Dachau sull’altitudine e sull’ipotermia, raccolti per il dibattimento da Leo Alexander, consulente capo del Processo dei medici di Norimberga, furono passati all’industria aeronautica americana e Hubertus Strughold, fisiologo al servizio di Herman Goring, nel 1947 trasferì la sua carriera nel programma spaziale degli USA, che lo acclamarono “padre della medicina spaziale”. Solo dopo la sua morte (a 88 anni) i media svelarono il ruolo da lui avuto negli esperimenti condotti a Dachau, durante i quali i prigionieri venivano immersi in acqua gelata, tenuti in camere iperbariche, costretti a consumare acqua di mare e sottoposti a interventi chirurgici esplorativi senza anestesia.
Degli esperimenti nei campi di concentramento, alcuni, come quelli condotti da Josef Mengele ad Auschwitz, divennero noti, ma la documentazione complessiva circa lo scopo, i carnefici e il numero di vittime, cominciò a comporsi solo nel 2010, quando Paul Weindling istituì il progetto internazionale che ha raccolto un database di 28.655 vittime sottoposte dai nazisti a 359 diversi esperimenti, molti dei quali su bambini. Questa banca dati sarà pubblicata entro il 2024 dalla Leopoldina, l’Accademia nazionale tedesca delle scienze (Weindling Paul. Painful and sometimes deadly experiments which Nazi doctors carried out on children. Acta Pediatrica 24 February 2022).
Gli obiettivi degli esperimenti erano il sostegno allo sforzo bellico, il raggiungimento dell’autarchia economica, l’espansione spaziale verso est e la costruzione di una razza ariana sana e forte. I conseguenti campi d’indagine includevano la fisiologia delle condizioni estreme, la prevenzione e la gestione delle epidemie, gli effetti delle armi chimiche, la resistenza a ferite infette, la riproduzione umana e i metodi di sterilizzazione di massa, la genetica e la biologia ereditaria (la cosiddetta medicina razziale).
Quando individuati, i prigionieri esperti erano obbligati a collaborare: uno di questi fu il microbiologo Ludwig Fleck, deportato ad Auschwitz all’inizio del 1943, che lavorò nel laboratorio dell’Istituto d’igiene delle Waffen-SS a Buchenwald per testare sugli internati l’efficacia di vaccini sperimentali contro il tifo petecchiale (uguali esperimenti furono condotti anche ad Auschwitz, Natzweiler e Ravensbrück con l’avallo e la collaborazione di istituti di ricerca medica civile e dell’industria farmaceutica). Fleck sopravvisse, scrisse uno dei primi resoconti della sperimentazione medica forzata nei campi e nel 1948 testimoniò al processo di Norimberga contro l’IG Farben (la ditta chimica produttrice dello Zyklon B).
Come parte del verdetto finale del processo, erano state emesse raccomandazioni per la futura ricerca sugli esseri umani (note come Codice di Norimberga) e nel 1946 era stata fondata, con il compito di implementarle, la World Medical Association (WMA) che, però, già nella sua Dichiarazione di Helsinki del 1964, su pressioni dell’American Medical Association e dell’industria farmaceutica, depotenziò il principio del consenso informato formulato a Norimberga, che avrebbe ostacolato la ricerca. La WMA, inoltre, deve ancora rendere conto del sostegno dato a Hans-Joachim Sewering per ottenere la presidenza dell’Associazione medica tedesca (Bundesärztekammer) nel 1992, dopo che le indagini avevano già rivelato che egli era stato un membro delle SS, reo, tra l’altro, dell’eliminazione di 900 bambini e ragazzi disabili.
Un’eredità insanguinata
Tutti i progressi del sapere medico hanno una storia e la Commissione Lancet è convinta che gli operatori sanitari debbano conoscere le origini del loro sapere disciplinare.
Dal gran numero di cadaveri prodotti dal nazismo trassero vantaggio tutti gli anatomisti tedeschi, che li usarono per i corsi di dissezione e per sviluppare quelle conoscenze anatomiche delle quali si sono avvalsi i chirurghi di tutto il mondo occidentale. Le immagini dell’atlante di anatomia Pernkopf sono basate sui corpi di oltre 1.377 persone giustiziate (per lo più per attività di resistenza) nel sistema carcerario di Vienna dai militari o dalla polizia segreta, tra il 1938 e il 1945. I disegni, spesso firmati con l’aggiunta di una svastica, sono stati copiati in molte pubblicazioni post belliche e l’atlante è stato ritirato dal mercato solo nel 1998, in seguito a un rapporto dell’Università di Vienna. Inaspettatamente, nel dibattito sulla liceità d’uso delle immagini Pernkopf, riemerso nel 2016, il rabbino Joseph Polak, sopravvissuto alla Shoah, ha sostenuto che, una volta rivelata la verità sull’origine dei disegni in ossequio alla dignità dei morti, l’atlante vada salvaguardato, perché la sua utilità medica e chirurgica è in linea con il principio del pikuach nefesh (שפנ חוקפ), secondo il quale la preservazione della vita umana supera qualsiasi altra considerazione.
Accanto a eponimi di malattie che rimandano a scienziati che divennero vittime del nazismo (Frey, Niemann-Pick, Ellis-van Creveld), altri ricordano i nomi di medici criminali, come Wegener, Reiter, Asperger: la discussione, ancora in essere, divide chi ritiene sia necessario abbandonarne l’uso e chi sostiene che cambiare i nomi delle patologie comporterebbe la perdita di un’opportunità d’insegnamento della storia della medicina.
Anche le raccolte di resti umani delle Università tedesche hanno a lungo incluso quelli di vittime del nazismo: i campioni cerebrali continuarono a essere utilizzati, decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale, per le pubblicazioni scientifiche di Julius Hallervorden, Berthold Ostertag, Hans Joachim Scherer e Heinrich Gross. Quest’ultimo, coinvolto nell’uccisione con barbiturici di 789 bambini perpetrata dal 1940 al 1945 all’Am Spiegelgrund di Vienna nell’ambito del programma di “eutanasia” infantile, agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso fece della collezione di cervelli di quell’Istituto la base della sua carriera di neuropatologo. Il sistema giudiziario austriaco l’accusò di omicidio solo nel 2000, quando Gross era troppo vecchio per sostenere un processo (morì centenario). I resti delle vittime dello Spiegelgrund furono sepolti nel 2002 in una tomba onoraria nel cimitero centrale di Vienna.
Negli anni 80 del secolo scorso, il giornalista Götz Aly allertò il pubblico sulla provenienza di molti dei vetrini cerebrali conservati presso l’Istituto Max Planck di Francoforte (che ne organizzò una sepoltura frettolosa); nel 2016, però, furono scoperti tessuti umani di vittime del nazismo anche presso l’archivio del Max Planck di Berlino. Quando il suo presidente, Hubert Markl, a titolo di scusa s’impegnò a istituire un programma per ricostruire il ruolo dell’Istituto (che allora si chiamava “Kaiser Wilhelm”) durante il nazionalsocialismo, Eva Mozes Kor (1934–2019), una sopravvissuta tra i gemelli di Mengele, commentò: ” Io non ho la procura di nessuno per perdonare e voglio ricordare che il perdono cancella la memoria… Voi, attuali capi della Società Max Planck, volete chiarire i crimini nazisti, ma poi forse dimenticare. Noi ricorderemo comunque. Voi dimenticherete comunque?”
Anche l’ammissione del coinvolgimento sostanziale degli psichiatri nei crimini nazisti fu molto tardiva: solo nel 2010 si scusò con i parenti delle vittime Frank Schneider, presidente dell’Associazione tedesca di psichiatria (della quale ex consulenti del T4 continuavano a essere membri onorari).
C’è qualcosa da imparare?
Secondo gli studiosi della Commissione Lancet, si può imparare da questa fetta di Storia solo se si abbandona il presupposto che i medici che collaborarono con il regime nazista fossero mostri: erano, altresì, persone con caratteristiche psicologiche condivise con il resto dell’umanità e con convinzioni scientifiche e obiettivi di carriera largamente diffusi, che agivano in un sistema politico estremo. Il tipo di medicina che essi esasperarono era il frutto marcio della cosiddetta “rivoluzione del laboratorio” che dalla metà del 1800 spostò l’attenzione dei medici dalla persona malata al malfunzionamento dei suoi processi biologici e strutturò sempre più l’assistenza sanitaria e la ricerca in istituzioni complesse, con un elevato grado di divisione del lavoro. Da un lato, essa consentì rapidi progressi delle conoscenze biomediche e degli interventi terapeutici e preventivi, dall’altro mise in una prospettiva riduzionista i malati e la loro sofferenza: la “distanza professionale”, necessaria affinché i medici possano osservare e curare oggettivamente i malati, se non bilanciata dall’empatia, può trasformarsi in disumanizzazione.
La ricerca clinica, in particolare, è intrinsecamente associata a potenziali conflitti tra la tensione alla conoscenza e la protezione dei diritti fondamentali di chi è soggetto alla sperimentazione; l’arroganza della medicina è un rischio costante, soprattutto via via che questa aumenta d’efficacia e che la forbice del potere nella relazione medico-paziente si allarga.
Una Commissione Lancet del 2010 sull’educazione medica aveva individuato tre livelli successivi di apprendimento: l’apprendimento informativo è l’acquisizione di conoscenze e competenze con lo scopo di diventare esperti; l’apprendimento formativo è la condivisione di valori identitari con lo scopo di diventare professionisti; l’apprendimento trasformativo è lo sviluppo di capacità direttive con lo scopo di diventare agenti di cambiamento, aumentando la propria consapevolezza morale, la sensibilità alle sfumature e al contesto e l’umiltà professionale.
Questa Commissione Lancet ritiene che la formazione di professionisti sanitari moralmente coraggiosi e resilienti, attrezzati per affrontare le sfide deontologiche attuali e future e per diventare “agenti di democrazia” possa essere favorita dalla riflessione critica sui passati fallimenti etici.
Un medico, esemplificano gli estensori del dossier, può essere accettabilmente bravo senza una conoscenza dettagliata della fisiologia e della biochimica alla base di ogni condizione, ma per migliorare la pratica in corso, invece di limitarsi a replicarla, la conoscenza delle scienze di base è essenziale; allo stesso modo, un medico può agire in modo corretto senza sapere come i valori cui s’ispira siano nati e siano stati modificati nel passato, ma per difendere l’etica quando è necessario o sfidarla quando è appropriato, la conoscenza storica è cruciale.
Riprendiamo questo articolo dalla rivista (edita da Zadig) Scienza in rete, che si era interessata della complicità della classe medica nei crimini del nazismo già 10 anni fa (La notte della medicina), e ripropone oggi l’argomento, nella consapevolezza della sua persistente estraneità alla cultura dei giovani e, in particolare, di quelli che si candidano a diventare medici o infermieri.