Dolore cronico: un altro gender gap?
La comunità scientifica sembra concorde: il dolore cronico colpisce una percentuale maggiore di donne rispetto agli uomini, in tutto il mondo e le donne sono più a rischio per molte condizioni che lo comprendono. Perché? I fattori biologici giocano senza dubbio un ruolo, ma per trovare una spiegazione più esaustiva è necessario considerare l’interazione di queste componenti con i fattori psicosociali che determinano l’esperienza del dolore nella sua complessità. Qui entrano in gioco le differenze di genere.
Il dolore cronico colpisce una percentuale maggiore di donne rispetto agli uomini. Una spiegazione del fenomeno ci porta a esaminare quanto la differenza di genere incide sul vissuto del dolore, sia da parte di ogni paziente sia delle persone addette alla cura.
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L’epidemiologia del dolore cronico rappresenta un campo minato, per la scarsità dei dati e soprattutto per l’eterogeneità degli studi, che differiscono nella definizione e classificazione del dolore e nella popolazione in esame. Numerosi sono anche i limiti per quanto riguarda le metodologie e il disegno di ricerca, tanto da rendere la generalizzabilità dei risultati e gli studi di secondo livello – come le metanalisi – molto problematici.
Ciò nonostante la comunità scientifica sembra abbastanza concorde: il dolore cronico colpisce una percentuale maggiore di donne rispetto agli uomini in tutto il mondo e le donne sono più a rischio per molte condizioni di dolore cronico, come la fibromialgia, i disturbi temporomandibolari, l’emicrania, la cistite interstiziale, i dolori articolari, la sindrome dell’intestino irritabile, la sindrome del dolore regionale complesso e la nevralgia del trigemino.
Perché? I fattori biologici giocano senza dubbio un ruolo: sono state individuate differenze a livello ormonale, anatomico, di controllo neuromuscolare, di risposta infiammatoria che possono agire sull’esperienza del dolore attraverso la modulazione e l’inibizione del segnale di dolore.
Ma per trovare una spiegazione più esaustiva è necessario mantenersi all’interno del modello bio-psico-sociale e considerare l’interazione di queste componenti biologiche con i fattori psicosociali che determinano l’esperienza del dolore nella sua complessità.
Ed è qui che entrano in gioco le differenze di genere. La distinzione tra sesso e genere è ormai abbastanza nota (anche se ancora dibattuta): a partire dagli anni ‘60 in ambito femminista si è cominciato a parlare di genere per distinguere quelle differenze che non sono rintracciabili nella biologia (differenze sessuali), ma che sono radicate piuttosto nell’ambiente, nella cultura e nell’educazione. Il genere indica quindi un costrutto sociale, un set di norme culturali che definisce le aspettative rispetto agli interessi, ai comportamenti, alle scelte di vita di uomini e donne. Nella nostra cultura inoltre il genere maschile è considerato dominante e nettamente distinto da quello femminile e i valori associati alla mascolinità sono considerati superiori.
Fin da bambini, maschi e femmine crescono in un ambiente che definisce come devono reagire al dolore: ai maschi viene insegnato a sopportare, a mostrarsi forti e stoici, a non chiedere aiuto. Alle bambine invece viene concesso di essere più sensibili al dolore, di mostrarsi vulnerabili e di esprimere anche a parole la sofferenza.
Già questa caratterizzazione delle norme di genere dovrebbe farci riflettere sull’epidemiologia: il numero delle donne con dolore cronico è maggiore perché le donne sono più propense a chiedere aiuto e a cercare cure?
Norme e stereotipi di genere, una volta appresi, determinano le nostre aspettative, e le aspettative giocano un ruolo chiave nell’esperienza del dolore: alcuni studi in setting sperimentale lo mostrano chiaramente, anche rispetto al dolore acuto. In presenza di uno stimolo doloroso di pressione, le donne hanno mostrato una soglia e una tolleranza al dolore inferiori rispetto agli uomini. Quando però veniva fornita un’informazione che lasciava a uomini e donne le stesse aspettative di tolleranza prima del compito (“la durata tipica di un uomo/donna è di 30 secondi”), non si sono manifestate differenze tra uomini e donne nella soglia, nella tolleranza e nelle valutazioni del dolore.
Gender Bias nella relazione tra il medico e il paziente con dolore cronico
I bias di genere nella relazione medico-paziente sono una realtà ben documentata e il dolore cronico è uno degli esempi più noti. Le donne con dolore cronico sono spesso percepite dai medici come emotive o isteriche. Il pregiudizio porta a credere che non vogliano davvero guarire o che si lamentino per poco o perfino che inventino il dolore.
Un recente studio pubblicato sulla rivista PNAS Nexus (Markowitz, 2022) ha provato a verificare se tali pregiudizi legati al genere fossero rintracciabili anche a livello linguistico: in particolare ha preso in considerazione oltre 1,8 milioni di note del personale curante (502 milioni di parole) provenienti da un grande ospedale statunitense. Le note sono gli appunti scritti dai medici per se stessi dopo le visite; hanno quindi una valenza privata, sono quasi dei diari in cui è possibile rilevare, oltre alla diagnosi, pensieri ed emozioni relativi al paziente. Queste note sono state poi analizzate con tecniche di natural language processing per rilevare indicatori di bias di genere e di etnia. Ecco che cosa è emerso:
- Nel descrivere e commentare i colloqui con pazienti (sia uomini sia donne) che avevano lo stesso caregiver, diagnosi simile e stessa etnia i medici si sono focalizzati di più sulle emozioni quando parlavano delle donne rispetto a quando parlavano degli uomini
- Gli appunti riguardanti le donne erano poveri di riferimenti al corpo e contenevano, invece, molti più riferimenti terminologici a emozioni negative, per esempio a stati di ansia, angoscia e pianto. Al contrario gli appunti riguardanti gli uomini contenevano molte più parole correlate al corpo e alle sue parti
- I medici tendevano a instaurare una certa distanza psicologica con le donne, usando pronomi impersonali
- I medici tendevano a pensare in termini più analitici e strutturati quando si occupavano di uomini rispetto a quando si occupavano di donne.
Psicologizzare il dolore femminile
Una recente revisione della letteratura sui gender bias nel dolore cronico (Samulowitz, 2018) ha sottolineato un aspetto molto interessante, perché incrocia i pregiudizi di genere e la difficoltà della medicina con le componenti non-misurabili del dolore stesso.
Secondo la revisione, condizioni come la fibromialgia, che non hanno sintomi misurabili o visibili al di là di quello che riferisce il paziente, rappresentano un problema per i medici, che le definiscono contested illnesses oppure le inquadrano usando definizioni negative rispetto a quella che considerano la normalità:“pain in the absence of diagnostic evidence” o “pain without organic pathology” (per inciso le abbiamo usate anche noi, perché è proprio il linguaggio della medicina a non fornirci parole o definizioni positive per questi fenomeni).
Anche se il modello biopsicosociale del dolore si sta affermando sempre di più nella cultura medica diffusa e nell’educazione, il paradigma biomedico resta quello dominante e il paradigma biomedico non è in grado di spiegare queste malattie, creando un conflitto con l’esperienza del paziente.
Queste patologie colpiscono prevalentemente le donne, che come abbiamo visto vengono prese poco sul serio anche in presenza di patologie con chiare componenti organiche. In questi casi molte donne si trovano a dover combattere una vera e propria battaglia per veder riconosciuta e legittimata la loro condizione. Ma sono anche i medici ad andare in crisi di fronte a malattie che non sono in grado di spiegare e che non sanno come trattare.
Per questo, forse, la reazione più classica è quella di “psicologizzare” queste condizioni: le donne sono considerate, secondo i bias di genere, più sensibili alla sfera emotiva (e quindi più “deboli” rispetto agli uomini); in più, secondo i bias del modello biomedico, le componenti psicologiche sono ritenute di minor valore e importanza rispetto a quelle biologiche e organiche. In pratica l’esperienza di queste pazienti viene sminuita due volte. È facile immaginare che trovarsi in questa condizione di stress possa generare una reazione negativa sul piano psicologico, reazione che può peggiorare il dolore cronico, determinando un circolo vizioso. La reazione emotiva negativa può essere facilmente letta dal medico come una conferma della sua diagnosi “psicologizzante”, andando a consolidare il pregiudizio.
Per chi conosce i profondi legami tra esperienza del dolore, pensieri, emozioni e stress l’errore di fondo è abbastanza evidente: non si può affrontare il dolore secondo un approccio dicotomico che distingue nettamente tra corpo e psiche.
Questi bias da parte dei medici (e del sistema sanitario) possono portare a disuguaglianze nel trattamento e nella presa in carico. Per il trattamento del dolore, alle donne vengono prescritti meno oppiodi e più antidepressivi rispetto agli uomini (a conferma della lettura psicologizzante del dolore al femminile) e sono più frequenti i rimandi ai professionisti della salute mentale. Paradossalmente il pregiudizio porta a un danno anche per gli uomini che potrebbero non vedersi riconosciuto il bisogno di un supporto psicologico.
Che cosa si può fare?
Difficile trovare una risposta: dal nostro punto di vista l’educazione sia dei medici sia delle persone che soffrono di dolore cronico dovrebbe essere più capillare.
Per quanto riguarda i bias di genere il punto di partenza dovrebbe essere sempre quello della consapevolezza: non possiamo ritenerci esenti ma dobbiamo interrogarci e riflettere su quanto i nostri comportamenti e le nostre decisioni siano guidati da questi pregiudizi. E questo vale per tutti, indipendentemente dal genere o dalla professione: cominciate subito, provate l‘Implicit Association Test (IAT) che è disponibile online anche in italiano.
Cercare di comprendere il dolore secondo un modello psicosociale, provando a lasciarsi alle spalle il modello rigidamente biomedico, dovrebbe essere una priorità per i clinici.
L’approccio biopsicosociale può aiutare anche le persone che soffrono di dolore cronico a inquadrare la loro condizione in maniera più consapevole e a viverla e gestirla quotidianamente secondo una visione più neutra rispetto al genere. Per esempio le strategie di coping non sono gender-specific: possiamo scegliere di mettere in campo di volta in volta strategie più orientate al problema o più orientate alle emozioni, possiamo chiedere aiuto ed esprimere la sofferenza nel modo che riteniamo più in linea con le nostre emozioni e i nostri valori.
Bibliografia
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Dolore cronico: un altro gender gap?
Le differenze tra uomini e donne nell’esperienza del dolore cronico vanno lette all’interno del modello bio-psico-sociale, integrando le differenze biologiche con l’influenza delle norme e dei pregiudizi di genere. E anche la medicina non è esente dai pregiudizi di genere che possono gravare sulla relazione medico-paziente e sulle opzioni terapeutiche